Albert Camus, che fu portiere della squadra di calcio di Algeri, scrisse:
“Tutto ciò che so in fatto di morale e responsabilità l’ho imparato dal calcio”
Nel mondo classico, lo stadio è sempre stato un luogo di competizione, ma anche di pace.
Fin dai tempi di Olimpia, infatti, i giochi implicavano una tregua tra le diverse città greche. Lo stadio era un luogo sacro, una sorta di zona extraterritoriale dove vigevano le regole della competizione nobile e leale. Regole che consentivano ai nemici, che si rispettavano reciprocamente, di confrontarsi sul terreno del gioco. Nel tempo, però, lo stadio subito un’evoluzione, diventando un’arena, un luogo dominato soprattutto dallo spettacolo e dallo scontro. Il pubblico vi si ritrova per assistere ad una lotta, da cui usciranno vincitori e vinti. Si tratta di una lotta simbolica, che, attraverso una forma di catarsi collettiva, libera gli spettatori dalle tensioni reali.
Per molto tempo questa catarsi, pur non esente da momenti drammatici, ha conservato una connotazione gioiosa, priva di ogni violenza reale. Mi ricordo, infatti, che, quando da bambino andavo con mio padre ad assistere alle partite della nazionale francese, lo stadio era sempre un’occasione di una festa collettiva, un momento di emozioni condivise.
Proprio per questo la cerimonia che si celebra allo stadio ricorda le cerimonie religiose. Si tratta di una religione immanente, che, pur essendo senza trascendenza e senza dio, dà luogo ad un rito collettivo che della religione conserva l’ambivalenza. Come la religione, infatti, la cerimonia sportiva consente di ritrovarsi insieme in uno stesso culto per disinnescare i conflitti e celebrare la pace, ma come la religione può essere all’origine di conflitti capaci di degenerare in vere e proprie guerre.
Purtroppo oggi questa seconda possibilità prevale di frequente. Naturalmente, negli stadi – e soprattutto in occasione delle partite di calcio – non è mai mancata una forma di violenza simbolica, violenza all’interno del gioco e violenza verbale tra i tifosi delle diverse squadre. Tuttavia, in passato, essa restava sempre sul piano simbolico, consentendo allo spettacolo sportivo di esorcizzare la violenza sociale presente nella società.
Allo stadio, infatti, noi spettatori proiettiamo il nostro desiderio di violenza sui corpi dei giocatori, i quali la mettono in scena all’interno di uno scontro simbolico. Da qui, tra l’altro, certa critica marxista che in passato ha rimproverato al calcio, nuovo oppio dei popoli, d’inibire i conflitti sociali.
Oggi la situazione è cambiata e questo modello sembra non funzionare più come in passato.
La violenza simbolica dello sport sembra non essere più in grado di dar luogo all’esorcismo collettivo.
Il rituale della partita diventa allora l’occasione per passare dalla violenza simbolica a una violenza reale che, priva di significati politici o sociali precisi, si scarica quasi integralmente sui tifosi delle altre squadre, sulla polizia o sui giocatori.
Gli attori di questa violenza, gli ultrà, sono figli della spettacolarizzazione ad oltranza dello sport.
Essi non sono più semplici spettatori, sono diventati parte integrante dello spettacolo, favoriti spesso dai dirigenti delle squadre di calcio. Oltretutto agiscono in un contesto in cui la professionalizzazione ha tolto allo sport la dimensione ludica. Nel calcio dominato dal denaro assistiamo a forme di folle accanimento su di sé e sugli avversari che producono accanimento e follia anche nei tifosi. E se la violenza si manifesta soprattutto negli stadi, è perché questi sono il luogo di un rito magnificato dalla televisione. In una società dominata dalle immagini, dove tutto è ridotto a spettacolo, si esiste solo se si è al centro dell’immagine.
Per molti individui, esistere significa mostrarsi al centro del teleschermo. Per chi si sente escluso, la violenza diventa un modo per accedere al mondo delle immagini. Solo che anche la violenza, per avere “senso” ha bisogno di mostrarsi, deve essere esibita e spettacolarizzata. Gli stadi, con il loro dispositivo di telecamere sono il luogo ideale per esibire questa violenza senza controllo, senza regole, senza referenti, per la quale a volte si parla impropriamente di violenza tribale. Una tribù, per quanto primitiva, implica sempre un’organizzazione, una gerarchia e delle procedure d’arbitraggio.
In uno scontro tribale si fa di tutto per canalizzare e controllare la violenza. La violenza degli ultrà invece sembrerebbe sfuggire atutto ciò, sembra essere puramente gratuita e preoccupata solo d’essere spettacolare.
La minaccia degli ultrà ha trasformato profondamente la realtà degli stadi, i quali per altro sono spesso connotati da una dimensione grandiosa. Per progettarli, infatti, vengono chiamati architetti di fama, i cui progetti esaltano la dimensione
Spettacolare che ha investito lo sport. Eppure al loro interno, queste grandi cattedrali di cemento e acciaio sono piene di barriere, reti e divisioni.
Quando gli spettatori si mettono tutti insieme a fare la “ola”, offrono l’immagine di una fluidità armoniosa che coinvolge in un unico entusiasmo i tifosi delle due squadre. E’ un’immagine ingannevole.
Nella realtà le divisioni sono profonde e l’architettura degli stadi risponde all’esigenza di tenere separate le tifoserie. Di conseguenza, la segregazione all’interno degli stadi riproduce la segregazione presente nella società.
Gli ultrà sono degli emarginati, anche se poi provano a costruirsi una nuova identità, identificandosi con una squadra che spesso non ha più nessun legame diretto con la loro realtà. Insomma, sugli spalti - che un tempo erano il luogo di una tregua che lasciava all’esterno tutti i conflitti - oggi ritroviamo l’esclusione e la frustrazione presenti nella società, con tutta la loro carica di rancori esplosivi. Da qui la crescente militarizzazione degli stadi, da dove alla fine ci giunge un messaggio diametralmente opposto a quello che lo spettacolo sportivo vorrebbe idealmente trasmetterci.
(Testo raccolto da Fabio Gambaro)
Source: www.repubblica.it
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